Al centro di queste due storie importanti e profonde di ribellione e riscatto ci sono segreti e vuoti che si cerca in ogni modo di tenere a bada. Ma, quando inesorabilmente vengono a galla, li si deve affrontare.
In dialogo con Francesco Deambrogi
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Nel suo ultimo romanzo “Quello che possiedi” (Feltrinelli, 2021), Caterina Soffici svela le ferite nascoste sotto una bellezza insidiosa per raccontare un’intensa storia di ribellione e riscatto al femminile.
Un’antica villa sulle colline di Firenze. Dentro quelle stanze si è incagliata la vita di una donna che solo trovando il coraggio di rompere i legami con il passato può riscattare la propria esistenza e salvare quella della figlia. Clotilde ha ottantadue anni e la malattia non l’ha cambiata troppo: è algida, elegante, impeccabile ed eccentrica come è sempre stata. Il tempo ha solo sbiadito i segni della sua bellezza. Olivia, sua figlia, è in piena crisi di mezza età: vegetariana, ossessionata dalla forma fisica, corre per non pensare al rapporto traballante con il marito e alla propria vita intrappolata in un vicolo cieco. Quando in una mattina di autunno Clotilde sparisce da Villa del Grifo, la dimora sulle colline di Firenze che appartiene da secoli alla famiglia, nessuno sa spiegarsi il perché. Anche da giovane amava partire a bordo della sua Lancia Aurelia in viaggi molto chiacchierati dagli avventori del bar tabacchi delle Tre Vie. Ma questa volta è diverso, tutti lo capiscono subito: questa fuga ha a che fare con la sua giovinezza. Nel suo passato è successo qualcosa di doloroso che ha sempre cercato di nascondere dietro le formalità e i rituali della vita altoborghese, tra mondanità e viaggi. Ora che la fine si avvicina, Clotilde deve fare i conti con i suoi demoni. E Olivia è inevitabilmente coinvolta nella ricerca della verità. Perché il passato della madre riguarda anche la figlia. Sua la scelta se continuare sulla strada delle menzogne e dei silenzi o prendere in mano il proprio destino, per dimostrare prima di tutto a sé stessa che ognuno è in grado di scrivere il proprio futuro e trovare la libertà.
“Ciò che nel silenzio non tace” (Einaudi 2021) di Martina Merletti prende spunto da un fatto realmente accaduto e l’autrice intreccia documenti e finzione, rivelando uno straordinario talento narrativo. Questa giovanissima scrittrice disegna figure indimenticabili, silenziose e caparbie, ed evocando con la stessa forza espressiva il passato e il presente firma un romanzo che ci coinvolge e ci commuove a ogni pagina.
1944, carcere Le Nuove di Torino. Una suora prende in braccio il bambino di una prigioniera in transito per Birkenau, lo addormenta con una pezza imbevuta di vino e riesce a portarlo fuori nel carrello della biancheria. Più di cinquant’anni dopo una giovane donna scopre che quella vicenda la riguarda da vicino, sale in moto e decide di seguirne le tracce. A poco a poco il passato si ricompone, nonostante i molti silenzi e i numerosi depistaggi della Storia: i bombardamenti, l’occupazione nazista, lo sfollamento, gli accidenti del dopoguerra.
Agosto 1944. Una suora ribelle e coraggiosa sottrae un neonato da una cella del carcere Le Nuove di Torino facendolo scivolare nel carrello della biancheria: è il figlio di una deportata, destinato a morte certa. Si sa, la lavanderia non è affare dei tedeschi, e il più delle volte i carrelli entrano ed escono dalle mura senza essere frugati. Ora il bambino dorme tranquillo, ma qualcuno dovrà prendersi cura di lui. Ottobre 1999. Una giovane donna sale in moto per cercare le tracce del fratello di cui fino a quel momento ha ignorato l’esistenza. La verità sul suo passato diventa una priorità che a lungo pare irraggiungibile. A unire questi due punti nel tempo è l’arco della vita di quel ragazzo sempre un po’ fuori posto, delle donne dure e forti che lo hanno salvato e accompagnato, legate dal medesimo segreto, e di un Paese lacerato e recalcitrante, che attraversa la guerra e il dopoguerra in perenne lotta con se stesso.